lunedì 24 gennaio 2011

Sanità e Santità (5)

L’incubo


Stavo viaggiando a bordo di uno scooter verso il sud Italia. Era una bella giornata di sole.
Mi sembrava che stessimo percorrendo la costiera amalfitana... Guidava il mio compagno. La strada era tutta curve, affacciava sul mare. Notai di avere un paracadute: lo indossavo come se fosse uno zainetto. Tuttavia era legato anche al mento da un cinturino. Sembrava essere un tutt’uno con il casco. Un casco-zaino-paracadute!
Mi stavo guardando attorno quando feci caso che le onde del mare stavano aumentando in forza e in altezza. Ben presto le onde divennero sempre più grandi. Le vidi arrivare sulla strada e travolgere il nostro scooter. Ebbi paura, anche se razionalmente ero preparata a quanto stava per accadere: quello tzunami inatteso ci stava trascinando nelle acque improvvisamente agitate. La forza dell’onda che si ritirava ci avrebbe portati lontano dalla terraferma in un attimo.
Finimmo in mare, sì, ma non andammo troppo lontano perché il paracadute si aprì automaticamente e fece la sua parte bloccando il risucchio dell’onda gigante. Comunque pensai bene di prendere una grande boccata di ossigeno nel momento in cui ci trascinò via. Avevo temuto di averne bisogno per respirare sott’acqua prima di riuscire a riemergere, ma non ce ne fu bisogno.
Non annegammo.
Approfittammo dell’istante di calma che precede di solito l’arrivo di una’altra onda anomala, per nuotare verso la riva.
Mi liberai in fretta del casco-zaino-paracadute ormai bagnato, ingombrante, pesante e anche pericoloso (poteva trascinarci sul fondo!) e riuscimmo a raggiungere a nuoto di nuovo la strada.
Da quel momento persi di vista Moshé.
Ero consapevole che avrei percorso in solitudine la strada mi aspettava.

Cambio scena:
Camminai tanto prima di riuscire a scorgere un luogo abitato. Il primo edificio che vidi fu una chiesa. Fuori c’erano tanti turisti e fedeli.
Entrai, e con sorpresa vidi che c’era soltanto Mariasole all’interno.
Notai che la chiesa era in stile gotico e questo mi spaventò. Non sapevo bene perché, ma quel senso di paura mi prese fino a consigliarmi di andar via di lì. Subito.
Dopo aver parlato con Mariasole esternando il mio timore, notai tre preti non proprio rassicuranti e continuai a dire a mia sorella di sbrigarci ad uscire dalla chiesa. Ma lei non mi diede retta:
“Dobbiamo affrontarlo questo problema altrimenti ce lo ritroveremo anche andando altrove!”
Non riuscii a convincerla neanche insistendo più volte. Ovviamente non l’avrei lasciata lì da sola e perciò la sua irremovibile convinzione mi “costrinse” a restare. Mi aspettavo il peggio da quel “cul de sac”!
I tre pseudo-preti erano disposti a triangolo irregolare: il primo era dietro l’altare, il secondo vicino le panche per i fedeli a destra, e il terzo vicino alle panche di sinistra ma un po’ più vicino all’uscita.
Ero appena entrata e quindi ero più vicina al terzo prete, più vicina all’uscita. Mariasole invece era entrata prima di me, e perciò si trovava più vicina all’altare e al prete che si trovava dietro di questo.
Lei non volle decidersi ad uscire, e mentre ancora cercavamo l’un l’altra di convincerci a restare o uscire, venni ammonita da quel prete che era il più vicino a me: lui mi puntò il dito indice contro mentre gli altri sorridevano in modo complice e sinistro.
Mi spaventai ancora di più quando vidi che il colore di quel dito era viola scuro, quasi nero. L’unghia era lunga, un po’ curva, e nera senz’altro.
Mi rassegnai a restare, sì, ma non mi diedi per vinta e cominciai a pregare intensamente (era l’unica cosa che mi fosse venuta in mente di fare: chiamare Dio, l’entità positiva e amorevole per eccellenza, in nostro soccorso e contro quei finti preti, in un luogo che avrebbe dovuto essere la “Sua casa” ma che invece non lo era affatto).

Cambio scena
Incontrai mia cognata in una camera dove due letti erano sistemati per terra. C’erano soltanto i materassi. Niente rete.
Pensai di riposarmi un po’ (mi sembrava di aver faticato abbastanza!) e perciò mi coricai su uno di questi (uno a caso). A questo punto entrò mia cognata che, vedendomi coricata, cominciò ad urlarmi contro dicendomi che quello era il suo letto.
Era visibilmente contrariata mentre mi gridava di uscire dal letto e dalla stanza. Io mi alzai subito e nel contempo cercai di tranquillizzarla dicendole che non volevo prendere il suo posto. Poi le chiesi:
“Ma come fai a stare in questa stanza? Quei ragazzi fanno così tanto rumore che si sente anche con la porta chiusa. Come fai a riposare con questo baccano? Perché non vieni con me? Io sto in un posto più tranquillo...”
“No, no, io devo rimanere qui... vai tu... io sto bene qui...” (soltanto un anno dopo avrei capito il perché di questa sua affermazione: non la vinse la sua battaglia contro il cancro).
Quando uscii dalla “stanza-di-mia-cognata” vidi tutti quei ragazzi che fino a poco prima avevo soltanto ascoltato rumoreggiare. Erano riuniti a gruppi di quattro/cinque, chi con bottiglie di birra in mano, chi ad ascoltare la musica riprodotta dall’impianto stereo installato nelle automobili, e tutti parlavano a voce sostenuta per riuscire ad ascoltarsi l’un l’altro...
Fra questi c’era anche uno dei miei tanti cugini (che poi nella realtà erano anni che non lo avevo più incontrato). Mi sorprese vederlo seduto sul cofano di una macchina, un po’ distante da tutti gli altri, quasi estraniato. Eppure sembrava facesse parte di quel gruppo di scalmanati. Lo salutai:
“Ma cosa ci fai qui? Non mi pare tu sia il tipo da stare in una situazione come questa...” (e in effetti non lo è mai stato!).
“Avevo bisogno di riflettere...” mi rispose con aria triste, “...comunque ora me ne torno a casa” (e anche riguardo la sua situazione, soltanto un anno dopo avrei saputo perché lo avevo incontrato proprio in quel contesto: suo padre morì dopo una lunga malattia)

Cambio scena:
Dopo aver salutato mio cugino rimasi di nuovo sola e così proseguii il “mio” cammino, lasciandomi alle spalle mia cognata (nella stanza chiusa) e i ragazzi ancora su di giri (fuori).
Mi ritrovai di nuovo nella chiesa gotica. Mariasole non c’era più. Stavolta sarei uscita: la scelta dipendeva soltanto da me...
Scesi una rampa di scale che mi portò subito all’aperto. Appena arrivai sull’uscio potei vedere ancora una volta l’avvicinarsi delle onde del mare. Erano pericolosamente alte e violente.
Non ero più sola perché lungo tutta la rampa di scale c’era molta altra gente che si lasciò prendere dal panico alla vista del maremoto, mentre io rimasi calma, riuscendo anche a ragionare fra me e me.
Sarei stata una delle prime ad essere investita dall’onda in quanto ero la più vicina all’uscita,ma stranamente non ebbi paura: “Sarà come dev’essere” pensai, e inalai quanta più aria mi riuscì di immagazzinare nei polmoni, per darmi una chance di sopravvivenza. Dunque non tentai di scavalcare gli altri per salvarmi, non tentai di passare sopra i loro corpi per arrivare in cima alla rampa di scale (cosa che invece gli altri fecero disperatamente, fregandosene di fare del male al prossimo).
L’onda investì tutto e tutti ed io usufruii dell’aria che avevo prudentemente immagazzinata. Questa fu sufficiente a farmi resistere perché l’onda anomala, con la stessa rapidità con cui si avvicinò si ritirò ma portandosi via la maggior parte di quelle persone.
Ce l’avevo fatta! Era tempo di risalire le scale per arrivare fino al capanile.
Davanti a me c’erano ormai pochissime persone (l’onda ne aveva portati via molti, e quei pochi rimasti si stavano sbrigando a salire). In particolare, io ero l’ultima della fila e davanti a me c’erano una mamma con il suo bambino che teneva in braccio.
Era arrivato il nostro turno di varcare la soglia della porta che dava sull’atrio del campanile, ma in quell’istante la donna si fermò. Era molto serena e fiduciosa. Fu allora che sentimmo suonare le campane, e quel momento mi sembrò davvero speciale. Magico!
Soltanto poco prima pensavo di volermi sbrigare a varcare la soglia per mettermi in salvo, ma poi vidi la mamma sorridere e la sentii dire:
“E’ una fortuna sentir suonare le campane proprio mentre stiamo varcando la porta, vuol dire che siamo benedetti. Sai, c’è una leggenda che dice che chi arriva fino a qui e sente suonare le campane mentre sta per entrare, è benedetto”.
Il bambino, ancora in braccio alla madre, mi guardò sorridente, mi tese la manina e mi alitò sulla faccia. Io mi senti pervasa di felicità e di Fiducia per questo gesto, e anche per le parole che avevo appena ascoltato.

Cambio scena:
Appena varcata la soglia, la donna si diresse proprio verso l’edificio di fronte, là dove erano andati tutti (a pregare, pensai).
La chiesa non era più in stile gotico ma romanico, e questo (non so bene perché) mi fece tanto piacere.
Il sole illuminava il grande giardino. Sulla sinistra potevo vedere la scogliera e il mare quasi calmo, mentre sulla destra vedevo il campanile. Io mi diressi verso il campanile e m’intrufolai in un piccolo buco nel muro, situato in basso (non c’era una normale porta). Nel momento in cui entrai mi sorpresi non poco, perché nella realtà soffro un po’ di claustrofobia e non mi salterebbe mai in testa di fare la speleologa!.
Una volta dentro, salii le scale e giunsi in una stanza che mi sembrò fosse sotto il piano del campanile. Capii che si trattava di una stanza segreta dove le residenti, tutte ragazze capeggiate da un uomo enorme, praticavano magia nera. Praticamente erano streghe. E l’uomo gigante era il loro capo.
Scoperta questa losca situazione nascosta dietro una facciata perbene, decisi di voler sconfiggere le streghe a forza di controfatture (cioè le preghiere, l’unica arma che sapevo avrebbe avuto effetto).
Consapevole di essere stata benedetta, mi convinsi che avrei potuto riuscire a sconfiggere il male.
Per entrare nel covo delle streghe dovetti dunque passare per un buco. Questo era talmente stretto che non so neanche io come riuscii a farlo. Ma sapevo che “qualcuno lassù mi amava” ed ero convinta che mi avrebbe aiutata, perciò non mi feci tanti problemi nonostante stessi, nel frattempo, riflettendo razionalmente sulla mia reale claustrofobia rispetto ai cunicoli.
Ci misi un bel po’ di tempo ma alla fine le streghe caddero una ad una, sconfitte dalla potenza della preghiera e della Fiducia con cui stavo agendo. Caddero quasi tutte. Ne rimase soltanto una, ma a quel punto neanche la cercai, anzi, le parlai. Veramente parlai ad alta voce in una stanza apparentemente vuota perché lei si era ben nascosta. O meglio, si era perfettamente mimetizzata con il muro, così da non farsi scorgere:
“Non fa niente, ti lascio andare, tanto tu da sola non puoi nulla”.
Ad un certo punto della “battaglia” contro le streghe, mi ricordai di un uomo che si era offerto di aiutarmi. Era salito poco dopo di me, entrando dallo stesso pertugio per raggiungere la stanza segreta. E fu proprio grazie a lui che l’uomo gigante (il capo delle streghe) decise di suicidarsi buttandosi giù dal campanile. Subito dopo, tutta la gente che era affluita nella chiesa uscì per accorrere sul posto per vedere cosa fosse accaduto, tanto era stato forte il tonfo.
Molte furono le domande che si posero:
“Ma chi è questo gigante, perché si è buttato giù?”
“Ooohhh! ma quanto è grande questo uomo...”
“Certo non può essere stato qualcuno a buttarlo giù”.
“Sì, sembra davvero sia un suicidio”.
Curiosità e sgomento palpabile tra la folla.
Paura, certezza, accettazione, (...) miscuglio indescrivibile di sentimenti nel mio cuore, e con queste sensazioni ingarbugliate mi svegliai di soprassalto, piangendo come un vitello (chissà perché si dice così?).

Nessun commento: