La domenica giunse e invece della ragazza si presentò quello che considerai istintivamente un brav’uomo. Fu lui che m’impartì la comunione nella stanza che mi ospitava. Era un prete di colore (nero, sì, ma molto molto positivo). L’avevo percepito subito che era una gran bella persona. E l'impressione restò anche quando ebbi modo d’incontrarlo due giorni dopo.
Fu un incontro fugace ma veramente intenso.
Un incontro senza parole eppure loquace. Un incontro fatto di uno sguardo e un gesto significativo della mano: quel pollice all’insù a suggerirmi coraggio e fiducia perché tutto sarebbe andato bene.
Fui davvero contenta di aver ricevuto la comunione da lui e non dal suo collega (bianco, sì, ma molto molto negativo). Questo lo incontrai due giorni dopo mentre faceva il giro delle stanze (andava a trovare tutti gli ammalati e per ognuno aveva una parola, ma quando parlò a me lo fece a raffica, dandomi disposizioni su come comportarmi e su cosa fare, domandandomi pure come stavo, sì, ma senza neanche ascoltare le mie risposte!
La sensazione che ne ebbi fu ovviamente negativa (e anche “a pelle” lo percepii così). Quando lo ascoltai rivolgersi a me in un modo così arrogante non potei fare a meno di interromperlo e rispondergli a tono visto che non voleva lasciarmi parlare.
Pensai, “ma se vuoi fare un monologo parlati allo specchio no?!”
La mia compagna di stanza invece ci si trovava tanto bene con questo prete! Anzi, di più: vidi che in poco tempo avevano in qualche modo creato un rapporto di comunicazione tra loro (di certo lei si fidava molto di lui...).
Inevitabilmente tornai a riflettere ancora sul mio sogno, ma senza dimenticare il racconto “rassicurante” dell’esperienza che aveva vissuto la mia compagna di stanza qualche anno prima.
“Eppure DEVE averlo un significato tutto questo!” pensai sempre più convinta che le coincidenze non sono mai solo semplici coincidenze. E a proposito di questo (delle coincidenze, intendo!) a togliermi qualche pur se minimo dubbio erano state anche due cose in particolare: un libro che il ragazzo nella stanza accanto alla mia stava leggendo, “Angeli e Demoni” di D. Brown che ho avuto modo di leggere un paio di settimane più tardi, e le riviste-gossip che mia nipote mi aveva portato da leggere “tanto per passare il tempo senza pensare troppo”. In uno di questi giornali c’era anche l’articolo sulle “bestie di satana” e la mia compagna di stanza, dopo avermi sentita commentare in modo totalmente negativo, si è praticamente sbrigata a chiedermele in prestito. Io non mi sono fatta pregare mica tanto sa?! Le riviste gliele ho date praticamente tutte, tranne una perché c'erano diverse pagine che raccontavano la storia del “mio” Giovanni Paolo, e naturalmente ho preferito tenerla.
Le coincidenze, si...
Insomma, in quell’ospedale non volevano ascoltarmi, né il prete (bianco) nè i medici: erano tre giorni che mi trovavo lì e ancora non avevo incontrato il chirurgo che mi stava “preparando” per poi operarmi. Probabilmente voleva conoscermi soltanto in sala operatoria, ma questo non era affatto consolante!
Alle “Monachelle” mi davano soltanto un antiemorragico (continuavo ad espettorare sangue se lo smettevo di prendere) ed un protettore per lo stomaco, mentre qui al PTV già dalla mattina mi avevano prescritto molte medicine (le dovevo inghiottire mattina e sera). Le prendevo, sì, ma avevo già scelto di voler essere informata e perciò chiesi agli infermieri cosa mi stessero propinando e a cosa servisse ogni singola pasticca che dovevo ingurgitare. Ad ogni risposta prendevo appunti così da avere un quadro chiaro (per me, ovviamente!):
Antra= protezione per lo stomaco, forma a capsula;
Eritrocitina= antibiotico, forma ovale con la lettera P al centro;
Ciproxin= antibiotico, forma rotonda con le lettere F su una metà e C sull’altra;
Urbason= cortisone, forma rotonda con una croce per la divisione a quarti (ma io la dovevo prendere intera);
Tranex= antiemorragico, forma liquida in fiale;
Micostatin= per curare la candida orale (che mi aveva scatenato il cortisone), forma liquida da usare per farne sciacqui.
Ed è stato proprio grazie a questa lista e relativo disegnino e descrizione, che in seguito sono riuscita ad accorgermi che le infermiere (quelle che erano un bel po’ sciattone!) mi stavano rifilando altro genere di pasticche. Questo è capitato più di una volta!. Ovviamente glielo feci notare lamentandomi con loro, ma non in modo passivo bensì attivo e cioè, chiedendo loro (con tono imperativo) di essere più attente e non di meno ricordandogli che il lavoro d’infermiera è un lavoro talmente importante che può decidere anche il fallimento o il successo dell’operato del dottore.
La “scuola-Monachelle” mi era stata molto utile, talmente utile che non riuscivo a tagliare i contatti neanche dopo essere stata ricoverata in un’altra struttura. Infatti continuavo a telefonargli per avere consigli e specialmente, se non soprattutto, calore umano.
“Professore, lo sa che ancora non ho visto il dottore a cui mi ha affidata?!”. “Io vorrei andare via di qui, non riesco a fidarmi di questa struttura... è talmente dispersiva! Eppoi non riesco più a dormire a causa dell’aria condizionata”. “Lo sa che non mi hanno ancora misurato la temperatura? Le infermiere dicono di non avere termometri... com’è possibile? Fa tanto freddo qui...”
Ebbene sì, telefonavo loro per ogni cosa! E parlare con gli infermieri o con i dottori dell’ospedale di Albano per me era la stessa cosa, perché tutti erano in contatto l’uno con l’altro. Sempre. E non era soltanto la mia impressione che facessero corpo unico e che tutti sapevano il fatto loro: era un dato di fatto.
Mi ci vollero un paio d’anni prima di tagliare il cordone ombelicale con la pneumologia delle “Monachelle”, ma per tutto il tempo in cui ho mantenuto il contatto ho continuato a dar loro mie notizie, così come sentivo fosse giusto che facessi (volevo anche dargli un po’ di soddisfazione per come si stava svolgendo la storia di una persona che avevano seguita e instradata sulla via della guarigione!).
Al PTV neanche il cibo era buono. Riuscivo giusto a fare una bella colazione abbondante (chiedevo sempre il bis perché sapevo che avrei saltato pranzo e cena oppure avrei mangiato soltanto la frutta, o latticini quando erano presenti nella portata).
Come si potevano servire cibi precotti che sapevano tutti di cicoria e non sempre erano cotti bene?
Eh sì, sapevano di cicoria (forse a causa di un disinfettante o che so io...): il petto di pollo sapeva di cicoria, il formaggio sapeva di cicoria, anche gli insaccati sapevano di cicoria...
Alle “Monachelle” tutto veniva servito in piatti di coccio: minestre fumanti, pollo con patate ben cotti, frutta, dolce... Non c’era proprio paragone!
Arrivai persino a chiedere ad altri pazienti se anche per loro il cibo avesse il sapore di cicoria e se anche loro avessero le braccia livide provocate dalle infermiere inesperte che facevano i vari prelievi o iniezioni.
Ebbene, dalle loro dichiarazioni seppi che non era soltanto una mia fissazione sia il sapore del cibo e sia i lividi sulle braccia, ma avevano paura a parlarne (dovevano pur sempre passare per la camera operatoria anche loro!!).
Nella stanza c’era una bacheca con un modulo pre-stampato da utilizzare per esprimere il proprio parere sulla qualità dell’ospedale. Mi ricordai che alle “Monachelle” avevo dato tutte risposte positive, ma qui di positivo c’era solo la bella struttura (mmmmhhh... ciò che è bello non sempre balla bene!)
Decisi quindi di recarmi alla direzione amministrativa per consegnare personalmente la mia lista di risposte, tutte negative. L’elenco era talmente lungo che, oltre ad aver compilato il modulo, aggiunsi anche tante altre cose fino ad arrivare a consegnare due pagine! Tra tutte le cose da me lamentate, c’era anche il fatto di non essere riuscita a contattare il professore che doveva operarmi, in tre giorni dal mio arrivo in reparto. Lui non aveva neanche sbirciato la TAC che gli avevo portato, assieme ad altri documenti. In pratica l’ho dovuto tampinare (nel vero senso della parola!) per parlare con lui e chiedergli il perché di tutte quelle medicine e sottoporgli tante altre domande alle quali, invece di una risposta avevo ricevuto rimproveri per il fastidio che gli stavo procurando. E infine sono stata trattata anche da psicolabile (secondo lui non ero nel pieno delle mie facoltà!), per non parlare del fatto che mi aveva tolto senza ragione anche le medicine:
“Ah non vuoi prenderle? Allora questa la togliamo, questa la togliamo e togliamo anche questa...”
“Veramente io volevo soltanto sapere come mai prendo il cortisone e perché l’antibiotico...”
“Ma sì certo, non ce n’è bisogno quindi eliminiamo tutto...” mi rispose totalmente indispettito dal mio interesse. E con quel “tutto” mi tolse anche il Tranex che mi serviva a non farmi espettorare sangue oltremodo (e chissenefrega pensai di risposta, che tanto più tardi riuscii lo stesso a farmelo dare da Stella del Mattino dopo averle spiegato tutto).
Cominciate a capire perché in quella struttura non mi sentivo sicura? Eppoi non ero trattata come un utente. E non è proprio una bella sensazione quella di sentirsi un numero e non una persona che si rivolge ad un’azienda per risolvere un problema. Quando l’azienda non ci soddisfa nelle prestazioni bisogna cambiarla no?! mbéh era quello che avevo deciso di fare già durante i primi giorni!
Infatti tenevo sempre il bagaglio mezzo pronto perché per me qualsiasi momento sarebbe stato buono per andarmene, anche se sapevo che non avrei potuto lasciare la struttura così “di bella” perché sarei stata denunciata. Dovevo firmare l’uscita e volevo farlo, ma non è che sia stato così facile, specialmente perché i parenti premevano che restassi per operarmi (e anche i medici e le infermiere!). Mi dicevano che non stavo bene e che perciò non ero in grado di decidere quale fosse la cosa migliore per me. Neanche loro volevano ascoltarmi, ma posso capirli: erano angosciati e timorosi dell’evoluzione che avrebbe potuto avere il cancro.
Ricordo che mi fecero visita Mariasole, Claraluna e mio cognato e che avevo preferito fare due chiacchiere al sole invece di restare nella stanza di degenza:
“Devo andarmene di qui... Ho paura a farmi operare... Ho fatto quel brutto sogno che secondo me mi ha messa in guardia...”
“Ma cosa dici? Non scherzare! Eppoi dove credi di andare? Vuoi cambiare un altro ospedale? Ma dove...” mi rimproverava Claraluna che pure ai sogni dava retta eccome.
E mio cognato che le diceva:
“Ma scusa, se lei si sente più sicura così...”
“Ma cosa dici pure tu? Che deve ricominciare daccapo? Intanto il tempo passa e la cosa si aggrava...”
Mariasole invece, mentre ascoltava tutto il battibecco tra Claraluna, Art e me, passeggiando lungo il vialetto bordato di trifoglio ad un certo punto si chinò prese un quadrifoglio e me lo porse dicendomi:
“Io credo in quello che dici e che senti. E secondo me questa è una prova che devi seguire il tuo istinto e il tuo intuito”.
Quando vidi che si trattava di un quadrifoglio fui colta da uno stato di meraviglia, anche se questo (a mio parere e anche secondo la percezione di Mariasole) confermava ciò che "sentivo" ma che non potevo dimostrare.
Come era riuscita Mariasole a trovare proprio un quadrifoglio tra tanti fili d’erba e trifogli? E per di più mentre camminava e ascoltava quel battibecco? Per lei e per me era stata più che una coincidenza. Andava oltre il normale pensare, oltre la razionalità. E come tale lo accettai, lo accettammo.
Oh, per la cronaca: il quadrifoglio lo conservo ancora in ricordo di quel momento speciale.
Quel ritrovamento e quel gesto accompagnato dalla breve e significativa frase di Mariasole, ebbero il potere di chiudere quel discorso-senza-senso (anche se Claraluna continuava a marcarmi stretta!), ma fu così che spalancai la finestra che si affacciava sull’altra parte del mondo, quello non materiale. Finalmente qualcuno cominciava a comprendere che il mio non era proprio “lo sproloquio di una malata”.
Con i parenti di Moshé fu ancora più difficile comunicare la mia scelta. Infatti quando vennero a farmi visita quasi mi assalirono (erano almeno in dieci e parlavano tutti assieme!).
Difficile, davvero una situazione difficile da gestire.
M’era venuto il mal di gola inutilmente perché non ascoltavano (ma questo fa parte della loro natura). Alla fine mi decisi ad alzare leggermente la voce per farmi sentire:
“Se volete sapere le ragioni di questa mia decisione allora statevi un po’ zitti e lasciatemi parlare, altrimenti fa lo stesso. Io l’ho già presa la mia decisione!”.
Ecco, bastò questa frase a farli chetare un attimo e a questo punto spiegai le mie ragioni, e quando arrivò il momento di raccontare anche il sogno mi rivolsi in particolar modo a mia cognata Marina che era già arrivata alla fase chemioterapia. E feci bene perché soltanto lei riuscì a comprendermi veramente...
“La tua fede ti aiuterà a superare questo momento” mi disse mentre tutti gli altri si accavallavano l’un l’altro per dirmi che non potevo dare retta ad un sogno, che sbagliavo, che era pericoloso aspettare ancora, che stavo male e che dovevo restare assolutamente lì, che quello era un bel posto (...) Non avevano ascoltato niente di quanto avevo detto: che ancora dovevo parlare col medico, che non mangiavo, che non dormivo se non per qualche minuto e poi mi svegliavo di scatto, che non mi sentivo sicura... Non avevano sentito una sola parola delle mie argomentazioni!
Moshé non disse nulla perché almeno un po’ si fidava del mio istinto, delle mie intuizioni “stravaganti” e quando i suoi fratelli gli dissero in modo concitato che doveva farmi ragionare, li invitai tutti a scendere giù in giardino per andare a respirare una boccata d’aria. In quella stanza c’era il caos ormai.
Il mio compagno mi prese sotto braccio e scendemmo tutti. Il tragitto per l’uscita comprendeva il passaggio obbligatorio davanti la cappella e quando giungemmo a quel punto il telefono di Moshé cominciò a squillare solo che al posto del nome o del numero della chiamata, sullo schermo era apparso il disegno delle campane. Ovviamente non dissi nulla riguardo a cosa pensavo di questa coincidenza ma mi ripromisi di tornare a leggere il messaggio del giorno. Quella mattina ancora non lo avevo fatto!
Fu un incontro fugace ma veramente intenso.
Un incontro senza parole eppure loquace. Un incontro fatto di uno sguardo e un gesto significativo della mano: quel pollice all’insù a suggerirmi coraggio e fiducia perché tutto sarebbe andato bene.
Fui davvero contenta di aver ricevuto la comunione da lui e non dal suo collega (bianco, sì, ma molto molto negativo). Questo lo incontrai due giorni dopo mentre faceva il giro delle stanze (andava a trovare tutti gli ammalati e per ognuno aveva una parola, ma quando parlò a me lo fece a raffica, dandomi disposizioni su come comportarmi e su cosa fare, domandandomi pure come stavo, sì, ma senza neanche ascoltare le mie risposte!
La sensazione che ne ebbi fu ovviamente negativa (e anche “a pelle” lo percepii così). Quando lo ascoltai rivolgersi a me in un modo così arrogante non potei fare a meno di interromperlo e rispondergli a tono visto che non voleva lasciarmi parlare.
Pensai, “ma se vuoi fare un monologo parlati allo specchio no?!”
La mia compagna di stanza invece ci si trovava tanto bene con questo prete! Anzi, di più: vidi che in poco tempo avevano in qualche modo creato un rapporto di comunicazione tra loro (di certo lei si fidava molto di lui...).
Inevitabilmente tornai a riflettere ancora sul mio sogno, ma senza dimenticare il racconto “rassicurante” dell’esperienza che aveva vissuto la mia compagna di stanza qualche anno prima.
“Eppure DEVE averlo un significato tutto questo!” pensai sempre più convinta che le coincidenze non sono mai solo semplici coincidenze. E a proposito di questo (delle coincidenze, intendo!) a togliermi qualche pur se minimo dubbio erano state anche due cose in particolare: un libro che il ragazzo nella stanza accanto alla mia stava leggendo, “Angeli e Demoni” di D. Brown che ho avuto modo di leggere un paio di settimane più tardi, e le riviste-gossip che mia nipote mi aveva portato da leggere “tanto per passare il tempo senza pensare troppo”. In uno di questi giornali c’era anche l’articolo sulle “bestie di satana” e la mia compagna di stanza, dopo avermi sentita commentare in modo totalmente negativo, si è praticamente sbrigata a chiedermele in prestito. Io non mi sono fatta pregare mica tanto sa?! Le riviste gliele ho date praticamente tutte, tranne una perché c'erano diverse pagine che raccontavano la storia del “mio” Giovanni Paolo, e naturalmente ho preferito tenerla.
Le coincidenze, si...
Insomma, in quell’ospedale non volevano ascoltarmi, né il prete (bianco) nè i medici: erano tre giorni che mi trovavo lì e ancora non avevo incontrato il chirurgo che mi stava “preparando” per poi operarmi. Probabilmente voleva conoscermi soltanto in sala operatoria, ma questo non era affatto consolante!
Alle “Monachelle” mi davano soltanto un antiemorragico (continuavo ad espettorare sangue se lo smettevo di prendere) ed un protettore per lo stomaco, mentre qui al PTV già dalla mattina mi avevano prescritto molte medicine (le dovevo inghiottire mattina e sera). Le prendevo, sì, ma avevo già scelto di voler essere informata e perciò chiesi agli infermieri cosa mi stessero propinando e a cosa servisse ogni singola pasticca che dovevo ingurgitare. Ad ogni risposta prendevo appunti così da avere un quadro chiaro (per me, ovviamente!):
Antra= protezione per lo stomaco, forma a capsula;
Eritrocitina= antibiotico, forma ovale con la lettera P al centro;
Ciproxin= antibiotico, forma rotonda con le lettere F su una metà e C sull’altra;
Urbason= cortisone, forma rotonda con una croce per la divisione a quarti (ma io la dovevo prendere intera);
Tranex= antiemorragico, forma liquida in fiale;
Micostatin= per curare la candida orale (che mi aveva scatenato il cortisone), forma liquida da usare per farne sciacqui.
Ed è stato proprio grazie a questa lista e relativo disegnino e descrizione, che in seguito sono riuscita ad accorgermi che le infermiere (quelle che erano un bel po’ sciattone!) mi stavano rifilando altro genere di pasticche. Questo è capitato più di una volta!. Ovviamente glielo feci notare lamentandomi con loro, ma non in modo passivo bensì attivo e cioè, chiedendo loro (con tono imperativo) di essere più attente e non di meno ricordandogli che il lavoro d’infermiera è un lavoro talmente importante che può decidere anche il fallimento o il successo dell’operato del dottore.
La “scuola-Monachelle” mi era stata molto utile, talmente utile che non riuscivo a tagliare i contatti neanche dopo essere stata ricoverata in un’altra struttura. Infatti continuavo a telefonargli per avere consigli e specialmente, se non soprattutto, calore umano.
“Professore, lo sa che ancora non ho visto il dottore a cui mi ha affidata?!”. “Io vorrei andare via di qui, non riesco a fidarmi di questa struttura... è talmente dispersiva! Eppoi non riesco più a dormire a causa dell’aria condizionata”. “Lo sa che non mi hanno ancora misurato la temperatura? Le infermiere dicono di non avere termometri... com’è possibile? Fa tanto freddo qui...”
Ebbene sì, telefonavo loro per ogni cosa! E parlare con gli infermieri o con i dottori dell’ospedale di Albano per me era la stessa cosa, perché tutti erano in contatto l’uno con l’altro. Sempre. E non era soltanto la mia impressione che facessero corpo unico e che tutti sapevano il fatto loro: era un dato di fatto.
Mi ci vollero un paio d’anni prima di tagliare il cordone ombelicale con la pneumologia delle “Monachelle”, ma per tutto il tempo in cui ho mantenuto il contatto ho continuato a dar loro mie notizie, così come sentivo fosse giusto che facessi (volevo anche dargli un po’ di soddisfazione per come si stava svolgendo la storia di una persona che avevano seguita e instradata sulla via della guarigione!).
Al PTV neanche il cibo era buono. Riuscivo giusto a fare una bella colazione abbondante (chiedevo sempre il bis perché sapevo che avrei saltato pranzo e cena oppure avrei mangiato soltanto la frutta, o latticini quando erano presenti nella portata).
Come si potevano servire cibi precotti che sapevano tutti di cicoria e non sempre erano cotti bene?
Eh sì, sapevano di cicoria (forse a causa di un disinfettante o che so io...): il petto di pollo sapeva di cicoria, il formaggio sapeva di cicoria, anche gli insaccati sapevano di cicoria...
Alle “Monachelle” tutto veniva servito in piatti di coccio: minestre fumanti, pollo con patate ben cotti, frutta, dolce... Non c’era proprio paragone!
Arrivai persino a chiedere ad altri pazienti se anche per loro il cibo avesse il sapore di cicoria e se anche loro avessero le braccia livide provocate dalle infermiere inesperte che facevano i vari prelievi o iniezioni.
Ebbene, dalle loro dichiarazioni seppi che non era soltanto una mia fissazione sia il sapore del cibo e sia i lividi sulle braccia, ma avevano paura a parlarne (dovevano pur sempre passare per la camera operatoria anche loro!!).
Nella stanza c’era una bacheca con un modulo pre-stampato da utilizzare per esprimere il proprio parere sulla qualità dell’ospedale. Mi ricordai che alle “Monachelle” avevo dato tutte risposte positive, ma qui di positivo c’era solo la bella struttura (mmmmhhh... ciò che è bello non sempre balla bene!)
Decisi quindi di recarmi alla direzione amministrativa per consegnare personalmente la mia lista di risposte, tutte negative. L’elenco era talmente lungo che, oltre ad aver compilato il modulo, aggiunsi anche tante altre cose fino ad arrivare a consegnare due pagine! Tra tutte le cose da me lamentate, c’era anche il fatto di non essere riuscita a contattare il professore che doveva operarmi, in tre giorni dal mio arrivo in reparto. Lui non aveva neanche sbirciato la TAC che gli avevo portato, assieme ad altri documenti. In pratica l’ho dovuto tampinare (nel vero senso della parola!) per parlare con lui e chiedergli il perché di tutte quelle medicine e sottoporgli tante altre domande alle quali, invece di una risposta avevo ricevuto rimproveri per il fastidio che gli stavo procurando. E infine sono stata trattata anche da psicolabile (secondo lui non ero nel pieno delle mie facoltà!), per non parlare del fatto che mi aveva tolto senza ragione anche le medicine:
“Ah non vuoi prenderle? Allora questa la togliamo, questa la togliamo e togliamo anche questa...”
“Veramente io volevo soltanto sapere come mai prendo il cortisone e perché l’antibiotico...”
“Ma sì certo, non ce n’è bisogno quindi eliminiamo tutto...” mi rispose totalmente indispettito dal mio interesse. E con quel “tutto” mi tolse anche il Tranex che mi serviva a non farmi espettorare sangue oltremodo (e chissenefrega pensai di risposta, che tanto più tardi riuscii lo stesso a farmelo dare da Stella del Mattino dopo averle spiegato tutto).
Cominciate a capire perché in quella struttura non mi sentivo sicura? Eppoi non ero trattata come un utente. E non è proprio una bella sensazione quella di sentirsi un numero e non una persona che si rivolge ad un’azienda per risolvere un problema. Quando l’azienda non ci soddisfa nelle prestazioni bisogna cambiarla no?! mbéh era quello che avevo deciso di fare già durante i primi giorni!
Infatti tenevo sempre il bagaglio mezzo pronto perché per me qualsiasi momento sarebbe stato buono per andarmene, anche se sapevo che non avrei potuto lasciare la struttura così “di bella” perché sarei stata denunciata. Dovevo firmare l’uscita e volevo farlo, ma non è che sia stato così facile, specialmente perché i parenti premevano che restassi per operarmi (e anche i medici e le infermiere!). Mi dicevano che non stavo bene e che perciò non ero in grado di decidere quale fosse la cosa migliore per me. Neanche loro volevano ascoltarmi, ma posso capirli: erano angosciati e timorosi dell’evoluzione che avrebbe potuto avere il cancro.
Ricordo che mi fecero visita Mariasole, Claraluna e mio cognato e che avevo preferito fare due chiacchiere al sole invece di restare nella stanza di degenza:
“Devo andarmene di qui... Ho paura a farmi operare... Ho fatto quel brutto sogno che secondo me mi ha messa in guardia...”
“Ma cosa dici? Non scherzare! Eppoi dove credi di andare? Vuoi cambiare un altro ospedale? Ma dove...” mi rimproverava Claraluna che pure ai sogni dava retta eccome.
E mio cognato che le diceva:
“Ma scusa, se lei si sente più sicura così...”
“Ma cosa dici pure tu? Che deve ricominciare daccapo? Intanto il tempo passa e la cosa si aggrava...”
Mariasole invece, mentre ascoltava tutto il battibecco tra Claraluna, Art e me, passeggiando lungo il vialetto bordato di trifoglio ad un certo punto si chinò prese un quadrifoglio e me lo porse dicendomi:
“Io credo in quello che dici e che senti. E secondo me questa è una prova che devi seguire il tuo istinto e il tuo intuito”.
Quando vidi che si trattava di un quadrifoglio fui colta da uno stato di meraviglia, anche se questo (a mio parere e anche secondo la percezione di Mariasole) confermava ciò che "sentivo" ma che non potevo dimostrare.
Come era riuscita Mariasole a trovare proprio un quadrifoglio tra tanti fili d’erba e trifogli? E per di più mentre camminava e ascoltava quel battibecco? Per lei e per me era stata più che una coincidenza. Andava oltre il normale pensare, oltre la razionalità. E come tale lo accettai, lo accettammo.
Oh, per la cronaca: il quadrifoglio lo conservo ancora in ricordo di quel momento speciale.
Quel ritrovamento e quel gesto accompagnato dalla breve e significativa frase di Mariasole, ebbero il potere di chiudere quel discorso-senza-senso (anche se Claraluna continuava a marcarmi stretta!), ma fu così che spalancai la finestra che si affacciava sull’altra parte del mondo, quello non materiale. Finalmente qualcuno cominciava a comprendere che il mio non era proprio “lo sproloquio di una malata”.
Con i parenti di Moshé fu ancora più difficile comunicare la mia scelta. Infatti quando vennero a farmi visita quasi mi assalirono (erano almeno in dieci e parlavano tutti assieme!).
Difficile, davvero una situazione difficile da gestire.
M’era venuto il mal di gola inutilmente perché non ascoltavano (ma questo fa parte della loro natura). Alla fine mi decisi ad alzare leggermente la voce per farmi sentire:
“Se volete sapere le ragioni di questa mia decisione allora statevi un po’ zitti e lasciatemi parlare, altrimenti fa lo stesso. Io l’ho già presa la mia decisione!”.
Ecco, bastò questa frase a farli chetare un attimo e a questo punto spiegai le mie ragioni, e quando arrivò il momento di raccontare anche il sogno mi rivolsi in particolar modo a mia cognata Marina che era già arrivata alla fase chemioterapia. E feci bene perché soltanto lei riuscì a comprendermi veramente...
“La tua fede ti aiuterà a superare questo momento” mi disse mentre tutti gli altri si accavallavano l’un l’altro per dirmi che non potevo dare retta ad un sogno, che sbagliavo, che era pericoloso aspettare ancora, che stavo male e che dovevo restare assolutamente lì, che quello era un bel posto (...) Non avevano ascoltato niente di quanto avevo detto: che ancora dovevo parlare col medico, che non mangiavo, che non dormivo se non per qualche minuto e poi mi svegliavo di scatto, che non mi sentivo sicura... Non avevano sentito una sola parola delle mie argomentazioni!
Moshé non disse nulla perché almeno un po’ si fidava del mio istinto, delle mie intuizioni “stravaganti” e quando i suoi fratelli gli dissero in modo concitato che doveva farmi ragionare, li invitai tutti a scendere giù in giardino per andare a respirare una boccata d’aria. In quella stanza c’era il caos ormai.
Il mio compagno mi prese sotto braccio e scendemmo tutti. Il tragitto per l’uscita comprendeva il passaggio obbligatorio davanti la cappella e quando giungemmo a quel punto il telefono di Moshé cominciò a squillare solo che al posto del nome o del numero della chiamata, sullo schermo era apparso il disegno delle campane. Ovviamente non dissi nulla riguardo a cosa pensavo di questa coincidenza ma mi ripromisi di tornare a leggere il messaggio del giorno. Quella mattina ancora non lo avevo fatto!
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